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Un...triatleta

Era il gioco di un bambino, puntare il dito sul mappamondo e far scorrere la palla mappata illuminata di colori differenti;immaginando di poter un giorno percorrere quelle strade, attraversare quei paesi, solcare quei mari.

Questo sogno si realizza nell'anima di un triatleta che allunga più lontano possibile l'indice di quella mano che fu piccola: ora il bambino cresciuto tira a sé con quanta più forza possibile il lembo dell'acqua, cercando di far scorrere sotto di sé quel mondo, cercando di dimenticare spesso il proprio quotidiano, pestando sui pedali e sulla terra , sulle grandezze di quel mondo che forse gli si è rivelato meno colorato di quanto apparisse in passato. Deluso, forse da questo, il triathleta cerca nella competizione un estratto di società ideale , con regole intransigenti, valori e concetti che la società in cui vive non gli restituisce a pieno. In questa mancanza e nella solitudine della fatica ha solo se stesso come riferimento o al limite la propria ombra: il riflesso cioè di ciò che avrebbe voluto essere e non è stato. E nella notte buia della vita intravede la propria ombra: lo sorpassa durante l'alternanza non troppo effimera dei passaggi scanditi da bagliori di luce dei lampioni che in fondo rappresentano le tappe dell'esistenza.

E anche i doveri forse mancati o le responsabilità superate a piè pari e sullo slancio adrenalinico di una mania di onnipotenza e di presunzione. Un uomo risoluto, potente, senza tempo da perdere; che sta dentro a un corpo ancora più risoluto, potente, con ancora meno tempo da perdere.

Ma la sensazione più nitida e semplice che traspare e' che questa presunzione di potenza non sia altro che un meccanismo di difesa.

Il triatleta solitamente non si mostra, non si apre. Fa il solitario, fa parlare tanto , prima di iniziare a parlare.

Poi, quando decide che l'interlocutore è meritevole di intimità intellettuale, inizia. A parte le delusioni che decide di affidare alle cure dell'interlocutore, non parla molto di sport. Esattamente come chiunque non parlerebbe molto di cose scontate del suo quotidiano. La sua forma d'orgoglio non si rivolge tanto a ciò che il suo corpo è capace di fare, quanto a come il resto del mondo valuta ciò che il suo corpo fa.

Egli dimentica le vittorie come fossero fazzolettini e si tatua le sconfitte come si fa con i nomi d'amante. Ama la sensazione dolorosa che viene dallo sforzo iperbolico a cui sottopone il suo organismo.

Non ha tendenze masochiste , solo molta confidenza con il dolore e non lo rifugge.

ha allenato i suoi livelli di sopportazione per permettere al suo corpo di continuare a lavorare anche in presenza di questo compagno di viaggio. Ci convive da talmente tanto tempo che ci è affezionato, a volte lo cerca, per ricordare a lui e a se stesso chi è che comanda. Ma il dolore gli offre anche un altro servizio. Una sorta di purificazione avviene nel momento in cui soffri: ti prepari a ricevere il trionfo , pagando in anticipo la superbia di poi. Egli spende profumatamente, ,volontariamente e anticipatamente per avere quei pochi minuti di orgoglio che si concederà per aver conquistato una soddisfazione. Desiderare il dolore per potersi riscattare a priori, sapendo che si macchierà d'orgoglio. Vergognarsi di amare le vittorie , l'unico tratto cattolico di un triatleta.

Egli usa ciò che scopre nelle persone come carburante per andare oltre quei confini che ha messo ovunque, non sia mai che si possa rimanere senza ostacoli da superare!

Ma lo fa con grazia, con profondità, dolcemente. Ha bisogno di energia per far funzionare la sua forza di volontà. Quando racconta a sè stesso i propri segreti, parla di cose che ha preso in prestito dall'interlocutore, che trasforma in una ragione per andare avanti.

Che di per sè, è forse l'unico tratto romantico di un triatleta.

Questo triatleta mi somiglia molto.


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