PAURA PAZIENZA PANDEMIA
Pazienza e paura sono strettamente collegate.
Solitamente chi ha pazienza riesce a controllare la paura.
La paura il più delle volte è collegata all’incertezza sul futuro, prossimo o lontano che sia.
Non abbiamo quasi mai paura di ciò che è stato e di ciò che è, ma di ciò che sarà o che potrebbe essere.
Lo sport di endurance più di ogni altra cosa mi ha insegnato ad avere pazienza, ha forgiato il mio carattere nel preparare un obiettivo sportivo e per preparare i traguardi in linea con le mie aspettative non bisogna avere fretta.
Questi traguardi implicano mesi di preparazione, e giorni di sofferenza. E per gestire tutto ciò bisogna avere pazienza.
Pazienza di soffrire, pazienza di non scoraggiarsi di fronte agli insuccessi quotidiani, pazienza di saper accettare anche giornate storte, pazienza di saper gestire anche euforia e successi dandogli la giusta collocazione nella nostra scala dei valori; per non adagiarsi sugli allori e per riprendere, sempre con tanta pazienza, la nostra scalata verso la vetta dei nostri desideri.
Ci vuole pazienza anche a gestire il successo momentaneo; ad esempio in giornate dove tutto sembra andare per il verso giusto. Dobbiamo avere pazienza nel sapere che magari l’indomani non sarà altrettanto parco di soddisfazioni, per questo dobbiamo avere pazienza nell’accettare e metabolizzare vittorie e sconfitte quotidiane. La pazienza in questo caso consiste nel vedere questi traguardi intermedi nell’ottica del ben più importante traguardo finale.
Il periodo che ci apprestiamo a vivere, ovvero questa seconda ondata di pandemia, è solo frutto del non aver avuto pazienza.
E questo atteggiamento, inevitabilmente, sta innescando nuove paure.
Non abbiamo avuto pazienza di rinunciare alla “movida”, non abbiamo avuto pazienza di rinunciare alle vacanze, non abbiamo avuto pazienza di rinunciare ad incontrare persone, non abbiamo avuto pazienza di tornare alla “normalità”.
Ora questa “normalità” è la nostra più grande paura, perché abbiamo paura che ci venga sottratta nuovamente.
E questo perché?
Perchè per tornare a questa normalità non abbiamo avuto pazienza.
Non abbiamo avuto pazienza e ora abbiamo paura.
La mancanza di “socialità” e di condivisione fisica ed in presenza, genera nella maggior parte delle persone una sorta di ansia. Questo perché la maggior parte di noi non è abituato a stare da solo.
Anche per stare da soli ci vuole pazienza: la pazienza di sapersi accettare, di sapersi bastare, di sapersi gestire in autonomia senza l’aiuto di nessun altro.
Chi avrà pazienza vedrà un futuro diverso, un futuro senza paura.
QUELLA LUCE
Spesso delle notti fredde sono in grado di regalarmi brividi di gioia e delle strade buie e senza nome accompagnano le mie fatiche.
In quei silenzi però trovo la forza di reagire e di andare avanti: nella solitudine di quelle strade ho costruito tante piccole vittorie.
Spesso ho associato la penombra di queste strade a quella del viale alberato che porta a casa mia.
Associo queste fatiche interminabili alle piccole fatiche dei miei allenamenti quotidiani ed ogni metro del percorso di gara diventa l’ultimo metro di questo viale, gli ultimi metri che mi riportano a casa dagli allenamenti.
In queste situazioni ho trovato la forza di non sentirmi perso, di non sentirmi solo anche quando solo lo ero davvero.
Durante queste notti, fossi anche in capo al mondo, scelgo una luce e mi convinco che sia la luce di casa mia.
Ho fissato una luce di casa in ogni gara e non sentendola lontana ho sopportato tutto.
La vicinanza di casa mi attenua spesso quel senso di paura che cerca di sconfiggermi: paura di morire, paura di non farcela, paura di esser inadeguato e di non avre il giusto carattere e la giusta forza.
Ma in queste notti piene di dolori, di crampi e di sonno ritrovo me stesso
E così di queste notti non voglio perdermi neppure un attimo.
PASSIONE SENZA LOGICA
Non esiste una spiegazione logica per spiegare questa passione.
Come non esistono spiegazioni logiche che aiutino a comprendere il significato di certi gesti protratti all’infinito, alla ricerca di nuovi traguardi, di nuove emozioni, di una vita che rifugga dalla monotonia quotidiana attraverso l’espressione di un corpo che nuota, pedala e corre.
Forse è riduttivo definire questa passione solamente con una definizione meccanica e fredda dei tre gesti atletici che la rappresentano.
Il significato è più ampio, forse più nobile...almeno per me è così.
In un solo gesto un uomo sfida tutti gli elementi della natura.
E la natura gli permette di solcare l’acqua e di percuoterla con la sola forza delle mani. L’uomo poi sfida il vento con il suo cavallo meccanico, protesi usata per vincere chissà quali sfide, o chissà quali amarezze mentre il vento gli solca il viso e gli dimezza le forze.
Non pago di tutto, l’uomo attraversa le terre del mondo e ne assapora la polvere, il calore, il fuoco.
Solo perché ricco di queste sensazioni l’uomo può reagire al dolore e alle delusioni: e devono essere stati tanti questi dispiaceri ,immensi questi dolori se questa ricerca continua di sfida spinge l’uomo sempre più lontano.
Ma mentre il mondo gli gira sotto i piedi, d'incanto svanisce ogni dolore.
UN TRIATLETA
Era il gioco di un bambino, puntare il dito sul mappamondo e far scorrere la palla mappata illuminata di colori differenti;immaginando di poter un giorno percorrere quelle strade, attraversare quei paesi, solcare quei mari.
Questo sogno si realizza nell'anima di un triatleta che allunga più lontano possibile l'indice di quella mano che fu piccola: ora il bambino cresciuto tira a sé con quanta più forza possibile il lembo dell'acqua, cercando di far scorrere sotto di sé quel mondo, cercando di dimenticare spesso il proprio quotidiano, pestando sui pedali e sulla terra , sulle grandezze di quel mondo che forse gli si è rivelato meno colorato di quanto apparisse in passato. Deluso, forse da questo, il triathleta cerca nella competizione un estratto di società ideale , con regole intransigenti, valori e concetti che la società in cui vive non gli restituisce a pieno. In questa mancanza e nella solitudine della fatica ha solo se stesso come riferimento o al limite la propria ombra: il riflesso cioè di ciò che avrebbe voluto essere e non è stato. E nella notte buia della vita intravede la propria ombra: lo sorpassa durante l'alternanza non troppo effimera dei passaggi scanditi da bagliori di luce dei lampioni che in fondo rappresentano le tappe dell'esistenza.
E anche i doveri forse mancati o le responsabilità superate a piè pari e sullo slancio adrenalinico di una mania di onnipotenza e di presunzione. Un uomo risoluto, potente, senza tempo da perdere; che sta dentro a un corpo ancora più risoluto, potente, con ancora meno tempo da perdere.
Ma la sensazione più nitida e semplice che traspare e' che questa presunzione di potenza non sia altro che un meccanismo di difesa.
Il triatleta solitamente non si mostra, non si apre. Fa il solitario, fa parlare tanto , prima di iniziare a parlare.
Poi, quando decide che l'interlocutore è meritevole di intimità intellettuale, inizia. A parte le delusioni che decide di affidare alle cure dell'interlocutore, non parla molto di sport. Esattamente come chiunque non parlerebbe molto di cose scontate del suo quotidiano. La sua forma d'orgoglio non si rivolge tanto a ciò che il suo corpo è capace di fare, quanto a come il resto del mondo valuta ciò che il suo corpo fa.
Egli dimentica le vittorie come fossero fazzolettini e si tatua le sconfitte come si fa con i nomi d'amante. Ama la sensazione dolorosa che viene dallo sforzo iperbolico a cui sottopone il suo organismo.
Non ha tendenze masochiste , solo molta confidenza con il dolore e non lo rifugge.
ha allenato i suoi livelli di sopportazione per permettere al suo corpo di continuare a lavorare anche in presenza di questo compagno di viaggio. Ci convive da talmente tanto tempo che ci è affezionato, a volte lo cerca, per ricordare a lui e a se stesso chi è che comanda. Ma il dolore gli offre anche un altro servizio. Una sorta di purificazione avviene nel momento in cui soffri: ti prepari a ricevere il trionfo , pagando in anticipo la superbia di poi. Egli spende profumatamente, ,volontariamente e anticipatamente per avere quei pochi minuti di orgoglio che si concederà per aver conquistato una soddisfazione. Desiderare il dolore per potersi riscattare a priori, sapendo che si macchierà d'orgoglio. Vergognarsi di amare le vittorie , l'unico tratto cattolico di un triatleta.
Egli usa ciò che scopre nelle persone come carburante per andare oltre quei confini che ha messo ovunque, non sia mai che si possa rimanere senza ostacoli da superare!
Ma lo fa con grazia, con profondità, dolcemente. Ha bisogno di energia per far funzionare la sua forza di volontà. Quando racconta a sè stesso i propri segreti, parla di cose che ha preso in prestito dall'interlocutore, che trasforma in una ragione per andare avanti.
Che di per sè, è forse l'unico tratto romantico di un triatleta.
Questo triatleta mi somiglia molto.
QUELL'UOMO
Sono stato un bambino come tanti.
Poi un incidente, l'andatura ed il passo pregiudicati per sempre,ancora oggi ne porto i segni.
Mi regalarono un bicicletta per farmi arrivare dove con i passi sarei stato più lento.
Ma all'inizio anche la bici mi tradiva, non potevo fare ciò che facevano gli altri, con la stessa rapidità, con la medesima naturalezza.
Non riuscivo a raggiungere certe salite, e la crudeltà innocente dei bambini non mi dava tregua.Risate, burla, emarginazione.
Poco alla volta cercavo di avere una vita normale come quella di tanti altri bambini.
Spesso allora mollavo la bicicletta e proseguivo a piedi, con incedere incerto, per il solo gusto di arrivare, in qualunque modo, potendo sfruttare due possibilità che in equa parte potessero compensare una qualità normale.
Una sorta di transizione bici corsa.
A volte però piangevo, sconsolato, isolato, deriso.
In un pomeriggio d'estate ero seduto su un muretto, l'ennesimo pianto per l'ennesima sconfitta: mi si fece avanti un uomo dal viso solcato di fatica e dalle mani contorte dal lavoro e mi raccontò di quando attraversò l'Europa per sfuggire alla prigionia,con le pallottole del nemico che gli fischiavano accanto.
"Un giorno,anche tu arriverai lassu' .Non ti curare di chi ti ride alle spalle.Se vuoi arrivare in cima alla salita ci arriverai.Provaci quando nessuno ti vede.Ce la farai".
Penso sempre alle parole di quell'uomo,penso sempre all'esiguità morale delle mie vittorie in confronto alle sue. Forse vincere le mie sfide e le mie battaglie è anche un modo di ringraziare chi mi inculcò con parole allora misteriose il concetto di allenamento: "Provaci quando non ti vede nessuno" disse quell'uomo.
Trasformai l'emarginazione forzata in isolamento voluto, in consapevolezza di diversità.
Da quella presa di coscienza cercai di sfuggire alla banalità, certo che avrei dovuto impiegare più tempo ma che alla fine il mio traguardo avrebbe avuto un valore unico ed inestimabile.
Cominciai a fare tutto ciò che gli altri non facevano.
Ancora oggi, provando da solo, spesso di notte per abituarmi ai ritmi e ai tempi di gara, rivolgo i miei pensieri al viaggio di quell'uomo.
Con chissà quali mezzi, con chissà quali scarpe, senza cibo, senza acqua, al freddo.
Raggiunse casa, il suo traguardo.Pesava quaranta chili.Più morto che vivo.
Le mie fatiche sono poca cosa rispetto alle sue.Certi traguardi raggiunti con il nome che porto sono anche il ringraziamento e il riconoscimento a chi non è stato mai alla ribalta delle cronache ma ora raccoglie i frutti di ciò che mi ha insegnato.
Ricordo poco altro di quell'uomo, la lontananza e le vicissitudini della vita mi hanno spesso tenuto lontano da lui.
Forse mi ha insegnato solo quello, ma alla fine in cima a quella e a mille altre salite ci sono arrivato.
Provando e riprovando, sempre da solo.
Di quell'uomo porto lo stesso nome.
L'ALCHIMIA DEL COACHING
RECENSIONE DE "L’ALCHIMISTA" DI PAULO COELHO
La prima edizione del libro risale al 1988, anni in cui il mental coaching cominciava a diffondere i propri dettami grazie a Withmore e Gallwey.
Eppure questa favola dei buoni sentimenti, della perseveranza, della realizzazione della propria Leggenda personale, del compimento del proprio viaggio interiore ed eroico, della capacità di credere ai propri sogni fino in fondo e di perseguirli giorno per giorno; sembra a tutti gli effetti un manuale di coaching.
Santiago, il protagonista, a volte è coach e a volte coachee.
Egli accetta consigli con la semplicità tipica dell’innocente all’inizio del proprio viaggio e l’intero racconto è sia impregnato di filosofia che pieno di allegorie e significati.
Nel racconto si intrecciano: ricerca, evoluzione dell’io e dello spirito, aspirazione per il raggiungimento dei propri sogni, significato del viaggio e bellezza del ritorno, amore, resilienza.
E’ un testo in cui è necessario fare qualche passaggio psicologico in più e comprendere il significato allegorico dell’intera storia.
Due sono le componenti principali: il viaggio e il sogno.
L’essenza del viaggio “eroico” si racchiude in queste parole : “Indipendentemente dalle proprie azioni, ogni essere presente sulla Terra svolge sempre un ruolo fondamentale nella storia del mondo….anche se, di solito, lo ignora.”
Il viaggio è una componente avventurosa (se proprio non vogliamo vederlo in chiave archetipica) : il protagonista abbandonerà tutta la sua vita(svincolandosi dal legame del radicamento, che tanto condiziona le menti) per inoltrarsi verso qualcosa che non conosce.
Paure, incertezze, timori:tutti deterrenti ampiamente superati da una innata volontà di crescita personale, di progresso verso la “propria” leggenda, il proprio sogno, il raggiungimento del proprio regno, il ritorno a casa da sovrano vincitore.
Un regno che qualcuno ha già raggiunto (il vecchio re Melchisedek………….e l’Alchimista stesso) , altri protagonisti sono ancora in viaggio nel deserto (nel quale ho visto una sorta di metafora della vita) e in una cultura araba che a Santiago pare totalmente sconosciuta e piuttosto chiusa (metafora dei condizionamenti e dei pareri altrui dai quali sarebbe sempre buona cosa prendere le distanze) .
Il viaggio ci coinvolge e ci fa temere. Il protagonista ha abbandonato una vita sicura per inoltrarsi nell’ignoto,alla ricerca di una felicità che a tratti della storia appare sempre più apparente.
Ma è anche un viaggio di crescita e di miglioramento sia per chi legge che per il protagonista.
Il sogno è una componente altrettanto importante. Non solo: questo è la chiave per raggiungere il proprio obiettivo e il motivo del viaggio del pastore.
Lui parte infatti sognando un tesoro nascosto sotto le Piramidi che lo aiuterebbe a soddisfare la sua leggenda personale.
Ma cosa sono la leggenda personale e l’anima del mondo?
L’anima del mondo è alimentata dai sentimenti dell’uomo: dalla felicità, dall’odio, dall’invidia e dalla gelosia.
L’anima del mondo e la vita favoriscono il Principio Favorevole perché ognuno deve vivere la propria Leggenda Personale.
La leggenda personale è ciò che ognuno di noi vuole realizzare, è la sintesi dei nostri desideri però è spesso ostacolata da delle forze misteriose(pareri altrui , auto profezie negative...le famose “frasi killer” di Berruto) che tenteranno di dimostrare che la Leggenda Personale è impossibile da realizzare.
Aristotelicamente parlando sono le nostre potenzialità che compiono un processo di divenire per diventare atto.
Il libro è anche corredato dai “segnali”.
Questi segnali, se letti ed intuiti , aiutano a comprendere la vita e a comportarsi di conseguenza. Quando il pastore si troverà nel deserto farà affidamento a questi segnali per capire anche l’avvento della guerra.
Nel coaching, l’intuizione, è uno dei fondamenti e può aiutare a captare questi segnali.
Nel libro, l’Alchimista è l’ultimo e il più importante tra i personaggi ed aiuterà il pastore nella riuscita del suo sogno.
Il suo potere principale è quello di penetrare nell’anima del mondo e scoprire il tesoro che il mondo ha riservato per noi.
Un altro personaggio molto importante, all’inizio del romanzo è il saggio re di Salem Melchisedek.
Personalmente, ho visto nel vecchio re la figura di un coach, e in quella dell’alchimista il coaching come disciplina.
Salem è una sorta di coach silenzioso, perché: “ talvolta mi manifesto sotto forma di una via d’uscita, o di una buona idea. Talaltra, sovente in un momento cruciale, mi limito a facilitare determinate azioni. E così via. Comunque, la maggior parte delle persone non se ne accorge neppure….
E’ un coach che si fa pagare per indicare la road map al giovane pastore ( deve essere stato alla scuola di un certo Biffi per non amare molto le prestazioni pro bono….:) ) : “sai la risposta ma paghi per fartela dare:comunque, sforzati di prendere personalmente ogni decisione. Sapevi che il tesoro si trova nei pressi delle Piramidi dell’Egitto, eppure hai dovuto ricompensarmi con sei pecore perché io ti aiutassi a decidere.”
L'alchimia è il Coaching: “Perché ogni essere umano possa cercare e scoprire il proprio tesoro, e avverta il desiderio di diventare migliore di quanto non fosse in precedenza".
Ciò spiega le pratiche degli alchimisti e dei mental coach: dimostrano che, ogniqualvolta riusciamo a migliorare nella nostra essenza, anche tutto ciò che ci circonda diventa migliore.”
Santiago è un cercatore, “sempre pronto a imboccare una strada diversa”.
Ha una rara capacità di ascolto, che è indice di acuta intelligenza emotiva: ascolta talmente tanto e bene i pareri altrui da essere in grado di discernere che molti hanno consigli da “dispensare su come condurre la vita altrui, senza essere in grado di condurre la propria”.
E’ un innocente in grado di capire l’incapacità della gente di scegliere il proprio destino: cosa che lo spaventa e dalla quale cerca di fuggire con tutte le sue forze.
Santiago però è anche quel guerriero che non si arrende, come fanno in molti, all’idea di un destino scritto e immutabile: “Esistono certo turbe dell’infelicità altrui e dell’invidia ad ostacolare il raggiungimento e la realizzazione della Leggenda Personale; ma farlo è l’unico dovere dell’uomo, l’unico scopo”.
L’epilogo stesso del libro è l’essenza del coaching: Santiago compie un lungo viaggio alla ricerca del tesoro, quando il tesoro in fondo è sempre stato nel punto in cui il suo viaggio è partito.
Ciò che cerchiamo,infatti, spesso è sotto i nostri occhi. Solo che non siamo in grado di vederlo e per farlo abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a vederlo: o da una prospettiva differente, oppure attraverso un “viaggio” entro noi stessi.
PROCESSI E FONDAMENTI DEL COACHING RAVVISATI NE “L’ALCHIMISTA”
Nel nostro processo di cambiamento non dobbiamo mai dimenticare i nostri fermi valori e la nostra dignità : non dobbiamo cioè, permettere alla vita di rovesciare le nostre “due gocce d’olio” dal cucchiaino.
Le vicende della vita, se pur intensa, non le viviamo con consapevolezza dei nostri mezzi : così come Santiago che stava imparando molte cose che in realtà aveva già vissuto, ma che gli risultavano nuove, perché prima non ne aveva avuto coscienza.
Fortuna o flusso? Quando la fortuna si schiera al nostro fianco, dobbiamo approfittarne e adoperarci per aiutarla, proprio come lei aiuta noi. Santiago lo definisce “principio favorevole”. Io lo definirei “flusso” di consapevolezza.
La paura di fallire. "Soltanto una cosa può rendere irrealizzabile un sogno: la paura di fallire”.
Il senso della vita non è la metà, ma il viaggio: “E perché non andate adesso alla Mecca?” domandò il ragazzo al mercante di cristalli” . “Perché l’idea di compiere il pellegrinaggio mi mantiene vivo”, rispose il mercante.
Road map: “Ricordati che devi sempre conoscere qual è la tua meta”.
Paura di cambiare, anche se in positivo, paura di vincere : “Se serviremo il tè nei bicchieri di cristallo, gli affari aumenteranno. E io dovrò modificare il mio modo di vivere”, disse il mercante di cristalli.
Pensiero positivo ed entusiasmo: "Quelle bestie, però, gli avevano insegnato qualcosa di più importante: che nel mondo esisteva un linguaggio compreso da tutti, quello che lui aveva utilizzato durante la sua permanenza lì per far progredire il negozio. Era il linguaggio dell’entusiasmo, delle azioni compiute con amore e determinazione, per arrivare a realizzare i propri desideri o a ottenere qualcosa in cui si crede.”
Lasciar andare, non aver paura del cambiamento: ”Nessuno deve aver timore dell’ignoto, perché tutti posseggono le doti per conquistare tutto ciò che desiderano.”
Il coaching guarda al futuro, mai al passato: “E quando non è possibile tornare indietro, ci si deve preoccupare soltanto del modo migliore per avanzare”.
Empatia: “Sì, devo prestare più attenzione al cammino della carovana,” disse l’inglese. “E io devo leggere qualcuno dei vostri libri che parlano dei segreti del mondo,” concluse il ragazzo.
Vivere il presente, qui ed ora: “Io sono vivo,” disse il capo carovana al ragazzo, mentre stava mangiando dei datteri, nella notte senza fuochi né luna. “Se mangio, mi limito a mangiare. Se cammino, mi limito a camminare. Non penso ad altro. Poi, se arriverà il giorno in cui dovrò combattere, sarà un buon giorno per morire.”.
La storia del giovane pastore ci insegna anche un concetto che dovrebbe essere alla base del nostro modo di interagire con le persone alle quali teniamo: il deserto intendeva spiegargli il segreto dell’Amore scevro dal sentimento di possesso.
Profezie negative auto avveranti(frasi killer di Berruto) : “Se fossero cose belle, il fatto di conoscerle costituirebbe una piacevole sorpresa,” aveva detto l’indovino. “Ma se fossero cose brutte.…” influenzerebbero il nostro modo di agire.
Prima di cercare soluzioni per noi e per gli altri dovremmo avere piena consapevolezza di noi stessi.
Santiago: “Forse non riguardavano me, ma l’altro straniero, l’inglese. Si è messo in viaggio per incontrarvi.”
“Deve prendere coscienza di altre cose, prima di trovare me.” rispose l’alchimista.
Differenza tra un motivatore e uno psicologo della prestazione (Berruto) :“ Se ogni tua scoperta sarà composta di materia pura, non potrà mai essere intaccata e marcire – e così tu potrai tornare. Se, invece, sarà soltanto un bagliore accecante, ma brevissimo – l’esplosione di una stella, per esempio –, allora al ritorno non troverai nulla”
Il “bagliore accecante” può essere il carburante “speciale” citato da Berruto, qual qualcosa che può permettere alla nostra automobile di fare 200 chilometri all’ora. Ma se la scoperta sarà di “materia pura” ovvero di un lavoro fatto sullo spirito, il ritorno al regno sarà alquanto migliore.
Per risalire devi toccare il punto più basso: “L’ora più buia è sempre quella che precede il sorgere del sole.”
Dialogo interiore: Santiago parla al proprio “cuore” ma in realtà parla alla propria coscienza. "Il cuore parlava per infondere stimoli ed energie nel ragazzo, per il quale le giornate di silenzio talvolta risultavano".
Altro aspetto che mi ha colpito di tutti i protagonisti del racconto sono i lunghi silenzi, le lunghe pause di riflessione che adottano prima di rispondere ad una domanda: sarebbe bello se tutti riflettessero prima di proferire parola!
Il racconto, secondo me, lascia nel lettore un grosso dubbio: vivere per un desiderio è meglio che realizzarlo? Secondo me sì: è il viaggio, non la meta, l’essenza della nostra vita.
IL TRIATLETA ZEN
Riflessioni sul libro "l'atleta zen" di Amanda Gesualdi
Si racconta che un giorno Picasso fosse nel suo studio a Barcellona quando entrò a fargli visita una facoltosa signora.
Molti pensano a Picasso identificandolo esclusivamente con la sua fase “cubista” e soprattutto capace di dipingere solamente quadri alquanto astratti.
Questo errore di valutazione viene fatto con moltissimi altri artisti, i quali, soprattutto agli esordi, hanno appreso le più raffinate tecniche di base per dipingere e disegnare soprattutto soggetti reali ed anche in maniera egregia.
Mio padre ad esempio, che di storia dell’arte capiva poco o nulla, additava Picasso come un pittore NON in grado di dipingere un ritratto di persona conforme al vero.
La storia dell’arte moderna ci insegna invece che tutte le trasposizioni pittoriche, scultoree e architettoniche; spesso altro non sono che le proiezioni dello stato mentale dell’artista e di un “viaggio/percorso” che lo stesso ha intrapreso.
Detto questo, la signora chiese a Picasso un ritratto dal vero.
L’artista la fece accomodare, prese carta e carboncino e iniziò a disegnare. Dopo dieci minuti presentò alla signora uno schizzo in stile cubista e le chiese una bella somma di denaro come compenso.
La signora sbottò: “a parte che questo ritratto non mi rappresenta, è troppo astratto! E poi lei mi chiede tutti questi soldi per quindici minuti di lavoro?!!!!”.
Picasso rispose: “quindici minuti? Ci ho messo una vita per arrivare a disegnare così!!!”.
La lettura de “L’Atleta Zen” ha sintetizzato, per me, trentacinque anni (dunque quasi una vita!) di convinzioni, di teorie, di tecniche di concentrazione, di approccio alla pratica sportiva e anche alla vita.
Attraverso le pagine de “L’Atleta Zen” ho potuto rivivere, anche se in parte, il mio viaggio sportivo.
Ho dato importanza, sempre, a tutto ciò che lo sport avrebbe potuto insegnarmi; piuttosto che all’ottenimento di un risultato cronometrico.
Mi sono sempre concentrato su piccoli obiettivi di performance piuttosto che guardare all’obiettivo di risultato che, considerando la lunghezza e la durata delle gare che affronto, avrebbe potuto demoralizzarmi e deconcentrarmi.
Ho sempre pensato di migliorare prima me stesso attraverso la pratica sportiva e poi ad ottenere riconoscimenti di qualsiasi altra natura.
Ovviamente i riconoscimenti e i risultati sono arrivati, ma come conseguenza quasi naturale del mio approccio alla pratica sportiva.
Ci sono situazioni che si verificano in gara o in allenamento che possiedono qualcosa di magico, che sono dotate di un flusso naturale che le pervade; e per le quali non serve porsi domande nell’analizzarle perché questo farebbe perdergli quella magia.
Credo ai miracoli. Credo soprattutto al miracolo della vita e a quello che ogni mattina mi permette di alzarmi dal letto e di macinare chilometri su strada e in acqua.
Probabilmente la mia mente contribuisce alla realizzazione di questo miracolo, corroborandolo di forza e motivazione.
Però la vita fa il resto, e io le sono riconoscente in ogni istante della mia vita.
Ciò che vorrei trasmettere nelle “mie” sedute di coaching a chi decidesse di affidarmi il proprio viaggio è appunto la consapevolezza che le risposte sono all’interno della persona e che io sono lì non per insegnare qualcosa quanto per aiutare a scoprire ciò che è all’interno del soggetto.
Mi piacerebbe trasmettere il concetto che ciò che si prova correndo o allenandosi è molto più importante del risultato in sé (“è importante ciò che provi mentre corri, non cosa troverai al traguardo”).
Mi piacerebbe trasmettere il messaggio sul miracolo della vita che ogni giorno ci pervade e di quanto siamo fortunati ad essere qui a goderne.
Collaboro con varie associazioni benefiche che supportano l’associazione “Autisminsieme” di Brescia e il reparto di onco ematologia pediatrica del Civile di Brescia: mi rendo conto che questi bambini meno fortunati di altri sono maggiormente in grado di cogliere l’essenza e il miracolo della vita rispetto ad altri.
A volte dovremmo confrontare altre realtà con la nostra per renderci conto di quanto siamo speciali e fortunati ad essere in salute: questo per me è un valore fondamentale della mia filosofia.
Vedo una seduta di coaching come uno scambio alla pari tra coach e atleta, e mi piacerebbe far capire a chi seguo che ogni gara, ogni esperienza, ma anche ogni avversario (anche se ci batte inesorabilmente) è un’occasione per imparare: il viaggio dello sport e della vita ci danno questa grande opportunità.
Riconosco a me stesso come atleta non delle grandi capacità quanto delle peculiarità.
Una tra queste, che il mondo esterno addita come “instancabilità”, per me non è altro che il considerare qualsiasi traguardo raggiunto (anche il più duro, anche quello che mi ha richiesto due settimane di fatica dove ho corso per venti ore al giorno per due settimane di seguito!) come la base di partenza per quello successivo.
Il mio modo di intendere lo sport è a spirale; dove meditazione, concentrazione e respirazione sono i cardini delle mie capacità.
Negli ultimi due anni, dopo la morte di mio padre, alcune mie convinzioni stavano vacillando.
Eppure sono rimasto costantemente sul “filo” del mio destino ed ho vissuto anche quei momenti bui all’altezza del mio essere atleta e della mia immaginazione.
Anche nel dolore, non ho abbandonato mai il mio sogno.
Ad un mio “atleta” mi piacerebbe trasmettere il concetto che il “vincente” è chi esplora, chi viaggia, chi si mette in gioco, chi affronta i propri muri e le proprie paure.
Vincente è chi si plasma, chi è duttile, chi osserva e chi ascolta.
Nell’allenamento, nell’alimentazione e nella preparazione in genere…sono a tratti maniacale.
Ma lo faccio da trentacinque anni con la stessa passione, con motivazioni sempre più forti.
Lo faccio perché amo farlo. Non mi sono mai allenato senza averne voglia.
Trovo sempre qualcosa che mi spinga a farlo con gioia e con passione. I risultati che ho ottenuto sono solo la conseguenza di questo approccio; credo.
Non ho mai messo in relazione il mio valore di persona in base ai traguardi raggiunti nello sport.
Quando per cause di forza maggiore ho dovuto interrompere periodi di allenamento o gare l’ho sempre fatto senza particolari ripercussioni psicologiche; interpretando l’interruzione o la pausa temporale alla stregua di un periodo “naturale” e fisiologico ed una sorta di allenamento “al riposo” dovuto e necessario.
La fiducia.
Qualche anno fa scrissi su Triathlete (rivista di settore) :
“La sera prima di una gara importante solitamente dormo senza problemi. Non soffro di insonnia e non mi faccio condizionare da ansie pre gara. Dico a me stesso che mi basterà essere presente, consapevole, fiducioso di ciò che posso fare. Il traguardo dista da me solamente attraverso un lasso di tempo che con pazienza e costanza riuscirò a colmare. La fiducia nelle mie capacità non deve venire meno perché è già stata testata con innumerevoli ore di allenamento.
Arriverò al traguardo attraverso una strada. La strada è la mia migliore compagna di viaggio. Sto con lei tutti i giorni, non mi può tradire. La strada di me sa tutto: gioie, dolori, tristezze ed estasi.
La strada divide con me molti momenti della mia giornata e io ho fiducia in lei. La strada non mi potrà mai tradire così come spesso fanno le persone. La strada si fida di me perché le ho donato negli anni molte ore della mia vita. L’ho solcata, accarezzata, vi ho versato sopra lacrime e sudore. Io e la strada ci fidiamo l’uno dell’altra.”
Non sono stati facili i miei esordi con questo sport così massacrante e logorante a livello fisico.
La difficoltà maggiore (anche se alla fine non ci ho dato tanto peso) è stata l’allontanamento da alcune persone.
Certe mie inclinazioni alla sofferenza, al sacrificio e all’allenamento venivano viste più come un disturbo della personalità che come tentativo di differenziazione dal conformismo e dalla cultura di massa.
“Perché corri così tanto, sei matto?
“E perché tu non corri come me? Allora sei matto anche tu!”
“Siate affamati, siate folli” (Steve Jobs).
La mia fame di viaggiare con la mente, attraverso lo sport, non si è fermata neppure dopo il raggiungimento di imprese dai più additate come “titaniche”.
Io le ho sempre viste come una sorta di cattedrale costruita per arrivare alla divinità del mio spirito.
Ma come fa l’uomo, che continua a cercare Dio anche dopo aver eretto la più bella e la più maestosa delle cattedrali; anche io ho continuato a cercare e a viaggiare dentro di me alla ricerca di qualcosa.
Nonostante abbia ottenuto discreti risultati in trentacinque anni di carriera (che non reputo affatto terminata!) non ho mai badato ai successi ottenuti quanto a riprendere immediatamente il cammino verso altrettante mete.
Gli allenamenti per me sono fonte di sofferenza ma sono anche il modo per conoscere il piacere.
L’atleta zen che è in me ama il dolore.
“Amo prima di tutto la sensazione dolorosa che viene dallo sforzo iperbolico a cui sottopongo il mio organismo.
Il dolore fisico puro.
Non ho tendenze masochiste, ben inteso.
Ho solo molta confidenza con il dolore, quindi non lo rifuggo come fa la maggior parte delle persone.
Ho allenato i livelli di sopportazione per permettere al mio corpo di continuare a lavorare anche in presenza di questo compagno di viaggio.
Ci convivo da talmente tanto che mi ci sono affezionato, e a volte lo vado a cercare, tanto per ricordare sia a lui che a me stesso chi è che comanda.
E a quel punto il dolore mi offre un altro servizio.
C’è una sorta di purificazione che avviene nel momento in cui soffri: ti prepari a ricevere il trionfo, pagando in anticipo la superbia di poi.
E dunque spendo profumatamente, volontariamente ed anticipatamente, attimi di dolore per avere quei pochi minuti d’orgoglio che mi concederò per aver conquistato l’ennesima impresa.
Desiderare il dolore per potersi riscattare a priori, sapendo che mi macchierò d’orgoglio.
Mi vergogno di amare le vittorie.
Questo è il mio modo di allontanare la gratificazione e forse anche il mio unico tratto cattolico”. (tesina Corso I livello, maggio 2019).
Sono un triatleta zen che non sottovaluta situazioni e avversari.
Ho molta confidenza con la paura, ma non la rifuggo.
La affronto. Tutte le volte che non ho avuto paura, ho fallito.
LA CORSA DELLA LEGGEREZZA
Riflessioni sul libro di Franco Berrino "la via della leggerezza"
Possiedo una buona cultura di base riguardo all’argomento “alimentazione” anche se, nel mio lavoro, per etica professionale preferisco sempre affidarmi alla consulenza di nutrizionisti e psicologi con i quali collaboro da anni.
Con il cibo ho un rapporto “pratico ed essenziale”, caratteristiche che a volte porto un po’ all’estremo; come del resto, a livello sportivo, è estremo ciò che faccio.
Per rendere bene l’idea, faccio riferimento ad un gran premio di formula uno:
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l’auto (un’auto eccezionale, progettata e pensata nei minimi dettagli) arriva ai box e in pochi secondi viene rifornita di un carburante necessario a portarla ai massimi livelli.
Certo, la macchina umana è tutt’altra cosa rispetto ad un’automobile.
Però pensate se a quel rifornimento l’auto fosse attesa da uno stuolo di persone che, tra una chiacchiera e l’altra, impiegano 2 h a fare il rifornimento.
Magari annusando il carburante, magari facendo il rifornimento con calma per assaporarne tutti gli attimi.
Sono un ex militare ed un’atleta. Il cibo per me (almeno in questa fase della mia vita) rappresenta benzina per il mio corpo, null’altro.
A tavola rimango seduto in media 5 minuti, il tempo di mangiare; poi mi alzo perché ho altro da fare.
Una macchina che corre (così come successe al soldato in missione) non necessita di convivialità.
Non mangio prodotti di origine animale da più di vent’anni, ma non mi reputo “vegano” in senso stretto.
A volte alcune esigenze di gara (cibo fornito dall’organizzazione) o di allenamento (dalle 20 alle 25 h a settimana) mi fanno optare per l’uso di formaggio grana e albume d’uovo. Molto raramente mi nutro di yogurt e derivati del latte.
Se mi trovo lungo la strada durante un allenamento di 8 ore in bicicletta ed ho finito le scorte alimentari, saccheggio di brioches e biscotti il primo bar che trovo.
Alimenti che contengono burro, latte, tuorli d’uovo. Se posso evitarli lo faccio, ma in casi estremi non me ne privo: per me la cosa più importante è l’efficienza del mio corpo.
Carne e pesce mai; verdure, cereali, legumi in quantità.
Mangio pasta e riso integrale a quintali (circa 400 gr di carboidrati al giorno) e giuste quantità di frutta (soprattutto secca, disidratata, e banane).
Ho spesso “bisogno” di alimenti zuccherati, per la combustione di tutto il glucosio che il mio corpo attua negli allenamenti di endurance. E dati i volumi di questi ultimi (in quantità ed in qualità) posso concedermi molto miele, biscotti fatti in casa da mia mamma (rigorosamente con olio di oliva, senza burro, solo con albumi), cioccolato, qualche gelato, barrette energetiche ed integratori idrosalini.
Molti degli ultra triatleti conosciuti in giro per il mondo hanno più o meno questo tipo di approccio al cibo.
Mi rendo conto però di essere un caso particolare.
E soprattutto mi rendo conto che le persone che seguo nella preparazione atletica e motoria difficilmente potrebbero adattarsi ai miei ritmi ed alle mie convinzioni.
E sono consapevole che sarebbe controproducente se lo facessero.
Con le persone che seguo, ammetto di essere meno drastico nell’approccio al cibo.
SOTTOCULTURA ALIMENTARE
La psicologia sociale indica come componente di particolare significato nel controllo del comportamento alcuni valori normativi che sono strettamente dipendenti dai sistemi politico-economici e dalla struttura sociale, e con essi necessariamente variabili.
Poichè il singolo attore sociale possa adeguarsi al mutare dei valori stessi e avere saldi punti di riferimento, è importante la disponibilità, la qualità e l'efficienza di molteplici istituzioni (o agenzie) che si denominano appunto di riduzione di quell'ansia che si ingenera quando il mutamento sociale è rapido e vengono meno le regole e le certezze di un tempo.
Ogni tipo di società predispone per i propri componenti vari mezzi, cui essi ricorrono per ottenere certezze, sicurezza, stabilità di valori, parametri normativi costanti e sicuri per la condotta, e la cui mancanza ingenera negli individui incertezza, e quindi ansietà, riguardo al modo secondo il quale ci si deve condurre nella società e adeguare alle norme."
La società “alimentare”, ovvero ciò che ci viene propinato come adatto alla nostra alimentazione, propone modelli più abbordabili, più commerciabili, più raggiungibili.
Guardiamo solo a ciò che ci viene venduto dall’industria alimentare: anche per le peggiori porcherie, nessun messaggio pubblicitario si sognerebbe di avvertirci che lo stesso prodotto “nuoce gravemente alla salute”.
Oggigiorno è più facile mangiare male ammazzandosi con il cibo.
Risulta più difficoltoso mangiare bene.
Tali agenzie, come ben si intuisce, svolgono una fondamentale funzione di stabilità sociale: esse sono rappresentate da tutte quelle strutture, più o meno istituzionalizzate o informali alle quali gli attori sociali aderiscono per vari motivi e in vario modo e che forniscono contestualmente costellazioni di valori. Il loro venir meno si riflette in aumento di ansia del vivere sociale.
Nella nostra epoca le distorsioni e gli eccessi alimentari legati al singolo individuo altro non sono che riduzioni dell’ansia del vivere sociale.
E le agenzie per la riduzione di queste ansie (industrie alimentari e farmaceutiche) tengono in scacco gli individui.
CIBO E STILE DI VITA
Il testo di Berrino mi ha fornito spunti interessanti da applicare nel mio lavoro, come ad esempio conoscere cause e motivazioni del sovrappeso di un soggetto.
Purtroppo, e nel testo è citato più volte, viviamo in un’epoca dove le persone non mangiano solo per fame.
Fame? Ma la generazione post 1960 conosce davvero il significato della parola “fame”?
Non credo.
Ciò che ci spinge a mangiare spesso è un languore di stomaco, non la definirei “fame”.
E le motivazioni che spingono una persona a introdurre cibo nel proprio corpo non sono riconducibili unicamente alla fame o ad un bisogno di nutrizione.
Come futuro mental coach mi piacerebbe poter approcciare la problematica nutrizionale, se pur con le dovute cautele vista l’importanza dell’argomento.
Come personal trainer ho sempre un approccio “attivo” alla risoluzione delle problematiche legate alla mobilità del corpo e al carburante necessario a questo scopo.
La mia idea di “leggerezza” si sposa molto con quella del dott Berrino, nel senso che molte dinamiche alimentari di un soggetto sono solamente una cartina al tornasole dello stile di vita e della psicologia di quest’ultimo.
Questa strada verso la leggerezza passa inevitabilmente attraverso:
- la consapevolezza e il rispetto del proprio corpo
-la cura quotidiana e costante nel muoverlo secondo schemi e allenamenti mirati
-la riconoscenza a dio e alla natura (o chi per loro….) per averci messo al mondo e averci dato la possibilità di muoverci (possibilità che non tutti hanno….)
-il contatto con la natura e con gli elementi.
Un corpo che sfida il vento nella corsa, che solca le acque di un lago facendo onda, una persona in sella ad un cavallo o una bicicletta che attraversa praterie e valli. Quanta meraviglia in tutto ciò! Perché non farlo? Perché chiudersi tra quattro mura adesso a ingurgitare cibo senza motivo magari assorti in uno smartphone? Verrà, per tutti, il tempo in cui non potremmo più uscire da quelle quattro mura, ed allora ci pentiremo.
Il cibo è nutrimento, il cibo è semplicità.
Sembra assurdo ma in questa semplicità le persone si complicano la vita.
DOV’E’ IL (MIO) LIMITE ?
Nella lettura del testo, ammetto di aver riconosciuto dei limiti personali.
Essendo una persona molto pratica e pragmatica (e anche abbastanza cinica) non ho ancora la mente del tutto “aperta” per comprendere tutte quelle dinamiche meditative inerenti alla persona e al suo bisogno di liberarsi dai fardelli emozionali e fisiologici.
Con tutto il rispetto per la materia, alla meditazione preferisco l’azione.
O, forse, non sono in grado di meditare stando seduto o sdraiato. Sicuramente attuo meccanismi di meditazione ma riesco a raggiungere questo stato solamente in movimento.
Diciamo che la mia interpretazione di meditazione si unisce a quella di “flusso”, una sorta di “flusso meditativo in azione”.
L’azione di un corpo in movimento che brucia le calorie ingerite e può permettersi di ingerirne ulteriori; l’azione delle endorfine e delle dopamine che vengono sprigionate durante una corsa, l’azione del circolo sanguigno portato alla massima efficienza, l’azione di un corpo mosso dalla forza dello spirito.
PUNTO DI NON RITORNO
Ho trovato molto interessanti le informazioni sui significati e sulle “tendenze” etiche ed estetiche del corpo umano e dell’alimentazione nel corso dei secoli.
Molto interessanti le digressioni sulle mutazioni dei connotati sociali delle comunità nel corso dei secoli.
Particolari le riflessioni sull’impostazione etica salutista di fascismo e nazismo……
Quella odierna; se pur facilitata da tecnologia, globalizzazione e progresso sembra essere l’epoca peggiore.
Ci sono molte discrepanze, molti eccessi, molte differenze.
La maggior fonte di emissioni dannose causa resta quella dei liquami e concimi animali; eppure la gente non lo sa.
La base dell’alimentazione nel mondo occidentale è rappresentata dai cosiddetti “quattro veleni bianchi”: farina bianca, latte, zucchero, sale.
Spesso parlare di alimentazione con le persone è peggio che parlare di calcio o di politica; data la faziosità e i preconcetti in essere tra le parti in causa.
Sarò drastico, ma non vedo una soluzione: troppi interessi in gioco, troppa ignoranza diffusa.
Ciò che possiamo fare, nel nostro piccolo, è rispettare l’ambiente e gli animali.
CAPOLAVORI , recensione al libro di Mario Berruto
Ho sempre ammirato, ed in realtà invidiato, sia pallavolisti che tennisti.
Sono due sport che fanno della rapidità di esecuzione e di pensiero il loro fondamento.
Ogni azione ed ogni gesto, in questi sport, sono decisivi e possono inficiare il risultato; soprattutto se la negatività di ognuno di essi innesca poi ripercussioni psicologiche in chi non ha eseguito quel gesto in maniera corretta.
Da un punto perso può scaturire, a cascata, la negatività psicologica che poi può portare alla sconfitta.
Ai tempi del liceo li ho praticati entrambi, con pessimi risultati.
Poi ho capito che potevo costruire il mio capolavoro in azioni più lunghe, dove il tempo a disposizione per pensare e "riparare" ad errori sarebbe stato maggiore.
Il mio modo di essere mal si sposa con l'immediatezza e la rapidità di pensiero e l'esecuzione di un gesto atletico ad essa associato.
Io ho bisogno di tempo, io vengo fuori a "distanza".
Nonostante queste differenze, ci sono molte assonanze e affinità di pensiero negli addetti ai lavori che eleggono l'aspetto psicologico ad elemento cardine nella costruzione di un successo sportivo: sia tra chi esegue(l'atleta)che tra chi allena.
Nel 2008 ho partecipato ad un protocollo di studi del CNR denominato "Ai confini della Fisiologia": relazioni nell'asse cuore/cervello/polmoni negli sforzi estremi.
A Pisa incontrai atleti di fama mondiale: Juri Chechi(ginnasta), Fausto De Stefani(alpinista) , Umberto Pelizzari(apnea) , Enzo Maiorca(apnea),Carlos Coste(apnea), Roberto Vittori (astronauta),Alex Bellini(navigatore) Luigi Casati (speleosub), Michele Pontrandolfo (esploratore ),Gianluca Frinchillucci(esploratore) ,Sara Campbell(campionessa del mondo di apnea), Stig Severinsen(campione del mondo di apnea statica), Giovanni Soldini(navigatore), Giuseppe Gibilisco(salto con l'asta), Amerigo Puntelli (maratoneta estremo) e il sottoscritto.
Ho avuto il privilegio di dialogare con ciascuno ed allo stesso tempo lo stupore di sentire dalle parole di questi campioni scaturire concetti che in un certo senso, sentivo appartenermi.
In quest'ottica, qualsiasi biografia o racconto di gesta ed esperienze sportive mi lascia sì grandi insegnamenti; ma il alcuni casi mi fa rivivere sensazioni ed emozioni vissute in modo diverse a livello di maestria ; ma affini a livello concettuale(visualizzazione,concentrazione,allontanamento della negatività, focus sul pensiero positivo).
La mente di uno sportivo, a certi livelli e se sufficientemente e correttamente allenata e preparata, ragiona allo stesso modo; indipendentemente dallo sport praticato.
SPUNTI E DIFFERENZE
SPESSO, NULLA E' COME PENSAVAMO CHE FOSSE (rif Berruto Londra 2012).
La mia monoidea(cit Berruto) nesce nel "pensare" una distanza, una sfida da affrontare.
Quando la mia mente è in grado di immaginare(o,come dice il coach torinese, "profetizzare") una distanza da percorrere, allora quella distanza è fattibile e verrà coperta: arrivare da un punto ad un altro su una cartina geografica oppure correre ad una determinata velocità per tot. ore in un giorno, dedicarne tre o quattro al riposo, e ripartire il giorno successivo.
Così, per un numero di giorni calcolato in base alle gare che devo affrontare ed alle distanze che devo percorrere.
Solitamente il mio approccio alla gara è così e nei mesi precedenti organizzo tutto in maniera maniacale (alimentazione,allenamenti,materiali,previsioni meteo,medicinali, attrezzature varie).
Poi succede l'imponderabile: un colpo di calore, una bibita fredda, stomaco e intestino capovolti; ad esempio....
Tutto è nuovo e meravigliosamente inallenabile (cit.Berruto).
Ma guarda caso, è proprio quando tutto va storto, quando succede l'imprevisto che sembra tagliarmi fuori da tutti i giochi di classifica; che la mia mente inizia ad inviare al corpo quei segnali di "leggerezza" che il coach torinese addita come la chiave per raggiungere prestazioni di alto livello.
VIAGGIO E GESTI
Maurizio Damilano sta a Vincenzo così come Nadia Comaneci sta a Berruto.
Mosca 1980: ero in ospedale con una gamba ustionata fino all'osso.
I medici dissero a mia madre che la mia andatura sarebbe stata pregiudicata per sempre.
Io ascoltai quella conversazione, ma nel frattempo guardavo marciare Maurizio Damilano.
Nella testa di quel bambino non divenne importante camminare, ma marciare.
Marciare; perchè mi parve un traguardo più fattibile per le mie possibilità e capacità.
Non so come e perchè, ma iniziai a pensare che la marcia potesse rappresentare un viatico per arrivare alla corsa, alla maratona.
Questo concetto di "vedere e prevedere", Berruto lo identifica come "profezia" (la predizione genera l'evento, l'evento conferma la predizione, l'individuo altera il suo comportamento in modo tale da causare quegli eventi stessi).
Dopo sei mesi fui dimesso, su una sedia a rotelle: non potevo appoggiare il piede e avevo preso parecchio peso.
Correre o marciare non era possibile, se non nell'immediato.
I medici consigliarono ai miei genitori di acquistare una bicicletta con la quale avrei mosso l'arto senza sollecitarlo troppo con impatti sul terreno.
Era estate, e mi appassionai anche al nuoto. Queste tre "arti" (nuoto,bici e marcia) le avrei rispolverate anni più tardi,in sequenza.
Solo negli anni a venire conobbi la storia e la filosofia di allenamento di Zatopek:
"Zatopek fu capace di sopportare carichi di lavoro inimmaginabili e partendo da uno svantaggio iniziale inventò un suo metodo fondato su passione, volontà, senso del rigore sopportazione/piacere della fatica.
Era sostenitore che una crescente esposizione allo stress fisico porti a una maggiore forza mentale" (Berruto).
Con tutto il rispetto, rispecchia alquanto la mia storia: allenamenti massacranti per superare una situazione di svantaggio iniziale e maggior forza di volontà rispetto alla tecnica.
Berruto insiste spesso sul concetto di "far bene" un gesto: la mia peculiarità è sempre stata non eccellere in nessuna delle tre discipline del triathlon. Bensì di mantenere un livello accettabile in ognuna delle tre.
"La cosa che conta di più tanto nella vittoria che nella sconfitta è fare bene un gesto, trovarlo fra mille possibili, innamora+rsene e prendersene cura,sottoporlo ad una sorta di manutenzione quotidiana, consapevoli che nella realtà si perde molto di più di quanto si vince".
La manutenzione quotidiana che ho dedicato al triathlon è stata pressochè costante; ma se devo scegliere un gesto o una azione che ho perfezionato maniacalmente devo ammettere che quel gesto è stato l'allenarmi in qualsisi condizione fisica,psicologica e metereologica.
Mi sono allenato con la neve, quando ero triste,quando ero stanco o avevo sonno.
Ho sempre cercato di trasformare le difficoltà in opportunità (Viktor Frankl: "devi puntare in direzione del vento se vuoi atterrare nel punto prefissato").
Solo in questo modo sono riuscito ad arrivare quasi sempre pronto alle competizioni; cercando di allenare anche l'inallenabile( "i campioni devono avere volontà e abilità ma la volonta deve essere più forte dell'abilità" - Mohammed Alì).
Non sono un campione, chiaro. Però ho dedicato più tempo ad allenare la volontà che l'abilità.
Forse perchè in cuor mio desideravo "dimostrare a me stesso e alle persone per me importanti di poter fare una cosa complicata e contro pronostico" (cit).
Pallavolo e triathlon sono agli antipodi per quanto riguarda gli spazi ma vicine per quanto riguarda "tempo visibile" e "tempo invisibile".
La pallavolo è lo sport con maggiore numero di atleti nello spazio; atleti che con il proprio sincronismo ne sublimano l'essenza.
Chi pratica triathlon,di contro, ha problemi di tutt'altro tipo: lo spazio(da percorrere) non è affatto angusto e rappresenta il nemico principale da sconfiggere.
Esiste invece una continuità temporale nell'esecuzione di una gara di triathlon, così come in una partita di pallavolo: tempo visibile quando la palla è in movimento, invisibile quando è ferma e si analizza azione precedente.
Anche nel triathlon, seppur il tempo scorra sin da quando viene data la partenza, secondo me esiste un tempo visibile (il tempo finale, che costituisce il risultato) ed uno invisibile; ovvero un tempo "personale", legato ad ogni atleta, all'interno del quale l'atleta pensa a come gestirà la gara, a cosa lo ha portato a farla, alle proprie motivazioni, alle persone care.
Nel triathlon, questo tempo invisibile è all'interno di quello visibile.
Berruto analizza il concetto di squadra come magnifico esempio di sacrificio individuale a vantaggio della collettività.
Vero è che il triathlon è sport individuale nell'esecuzione, ma a livello emotivo (almeno per il sottoscritto) è un vero e proprio sport di squadra.
Una squadra composta dalle persone che ho a cuore e che bramano per vedermi felice nel raggiungimento di un traguardo.
Persone che mi hanno supportato ed incoraggiato durante i mesi di allenamento e durante la competizione. Senza di loro, non avrei raggiunto certi traguardi.
"Ci sono persone,a casa;che nei propri pensieri, nei propri desideri e sogni...non desiderano altro che vederti felice. La felicità ora per te è raggiungere quel traguardo. Io vorrei farti arrivare ora al cuore tanta forza, per poterti stare vicino. Vai amico, vai a suonare l'unica musica che TU sei in grado di suonare: quella del coraggio e della volontà. Non sentirti solo. Non fermarti più." (Giacomo Maritati, mio caro amico, durante un decaironman, Monterrey 2006).
Indubbiamente la simbiosi e l'amicizia con Giacomo hanno fatto di noi una sorta di squadra.
Le mie vittorie e i miei traguardi, spesso, sono stati anche i suoi.
PICCOLO CAPOLAVORO
L'attitudine di Joseph Mallord William Turner a voler fare qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima mi ha fatto venire in mente un aneddoto che risale al 2006.
Prima di allora il decaironman era concepito solamente nella formula "continuous": ovvero 38 chilometri di nuoto, 1800 km di bici, 422 km di corsa.
Senza sosta: quattordici giorni di tempo per completare quelle distanze.
Ci si può fermare quando se ne sente la necessità (la gara viene fatta in circuito di 5 km), ci si riposa quando ci si sente stanchi, si mangia all'occorrenza, si dorme nelle tende in prossimità del percorso.
Durante le soste, ovviamente, il tempo di gara NON viene fermato.
Prima del 2006 avevo corso 3 decaironman "continuous" e il mio miglior tempo lo stabilii proprio quell'anno a Monterrey con 280 ore; poco meno di dodici giorni.
Tra me e me pensai: se in un ironman singolo il mio peggior tempo è di 16 ore (gara con dislivello di 5000 mt in bici sulle strade del Tour de France) ....se moltiplico per 10 arrivo a 160 ore.
Non sarebbe meglio correre un ironman singolo al giorno per dieci giorni consecutivi in modo che una volta ultimato il tempo di gara possa essere fermato? Così facendo, tutti gli atleti potrebbero completare la stessa distanza in dieci giorni.
Proposi alla federazione internazionale triathlon questa formula, che in prima battuta venne giudicata "impossibile" in quanto ogni atleta sarebbe stato soggetto a prestazioni troppo "veloci" e non in grado di reggere i ritmi per dieci giorni.
Chiesi il permesso di dimostrar loro che questa formula era fattibile, radunai venti "folli" e ci trovammo tutti in Messico a novembre del 2006.
Undici persone terminarono tutti e dieci gli ironman, io come undicesimo.
Ma quel traguardo ad oggi rimane il mio capolavoro.
Sommando i tempi finali di ogni ironman avevo totalizzato circa 180 ore, ovvero cento ore in meno rispetto alla formula "continuos" ("È proprio quando pensiamo di sapere tutto di una cosa che è arrivato il momento di guardarla da un punto di vista diverso" -Robin Williams, l'Attimo fuggente).
La formula 1 ironman al giorno moltiplicata per dieci giorni consecutivi, ad oggi, è entrata come tipologia collaudata e fissa nel calendario dell'ultra triathlon; insieme al "continuous".
DESIDERIO COMUNE E MANTRA
Il discorso di Berruto alla nazionale a Lione (atleti arrivati da posti diversi, che non si scelsero tra di loro ma erano lì per un desiderio comune) mi ha fatto venire in mente alcune frasi motivazionali che uso nei momenti di crisi:
"Guarda dove sei, da dove sei arrivato,quanta strada hai fatto per arrivare fin qui. Ci sono atleti in tutto il mondo che pagherebbero per essere al tuo posto. Eri un bambino zoppo, ora stai correndo con atleti incredibili".
MALINCONIA DOPO UN TRAGUARDO: ULISSE E GLI ATLETI
"Una volta tornato alla tua Itaca e sconfitti gli usurpatori del tuo regno, dovrai ripartire.
(cit. Tiresia a Ulisse).
Ho visto spesso una sorta di malinconia negli occhi di un atleta che arriva al termine di un percorso vittorioso: ha raggiunto l'isola di Utopia , è la fine di un viaggio.
"Al termine di una competizione, di un’avventura o di un’esperienza di vita (in cui il mio IO, estensione materiale del mio Spirito, ha avuto un ruolo preponderante e fondamentale) spesso mi ritrovo a osservare delle immagini del mio corpo in azione.
A me piace pensare a questi fotogrammi come a un attimo infinito di gloria, immortalata per sempre su un supporto cartaceo, ma trasposizione di un ricordo che rimarrà indelebile nella memoria.
Un fotogramma non ferma solamente l’immagine che il mondo ha di noi: essa fissa lo stesso ricordo che noi stessi abbiamo di quell’istante.
La fotografia mostra in un’unica immagine la sintesi IO-Spirito.
Un IO, altamente “cartesiano”, un IO macchina, quasi perfetta, sottoposta a continui sforzi per ottenere i massimi risultati sotto ogni punto di vista.
Ma se guardo a tante immagini che ritraggono questo IO in azione , vedo spesso sguardi tristi e insoddisfatti.
Interpreto l’infelicità di alcune espressioni sia come una consapevolezza dell’ attimo di breve felicità presente condizionata dal passato; sia come prevalenza dello spirito del cercatore che intravede l’illuminazione del diventare migliore attraverso una affermazione sportiva.
Un passato con segni indelebili sul quale l’io ha cercato di soprassedere concentrandosi sul perfezionamento di sé stesso, del corpo macchina e automa, e questo spirito, che in un continuo ed estenuante viaggio, si ripiega sul corpo, cercando equilibrio e perfezione impossibili da raggiungere.
Il mio spirito spesso chiede scusa al corpo per averlo estenuato ancora una volta, per averlo messo duramente alla prova. E questo corpo perdona, e la volta successiva darà ancora di più (dialogo interiore).
Come se ci fosse tra i due una dinamica sadica e masochista ad alternanza. Lo spirito ama e odia l’IO, un IO di esso schiavo ma padrone delle azioni.
L’io si illuderà che la fatica propostagli dallo spirito sia l’ultima. L’Io si illuderà che non ci sarà una seconda volta e lo spirito gli lascerà quest’illusione. Per poco." (Vincenzo Catalano, rivista triathlete maggio 2005).
FINALI (e neuroni) ALLO SPECCHIO
Ho sempre immaginato una gara partendo dal finale, dal traguardo.
Inizio sempre a visualizzarlo in partenza, cercando foto reali del luogo in oggetto.
Immagino per mesi la scena del mio arrivo e spesso questa scena è alquanto "esaltata" rispetto a ciò che potrebbe accadere nella realtà.
Comunque vada la competizione, immagino sempre il mio arrivo da vincitore, con ali di folla ad attendermi; e tutta la mia famiglia presente.
Questa situazione ovviamente non si è mai verificata: ma io la ripasso ogniqualvolta mi alleno.
E nei momenti di crisi fisica o psicologica la mia mente sostituisce le immagini reali a questa immagine di gioia e di festa. Spesso mi è servita, spessissimo.
Questa profezia spesso si autoadempie perchè modifica il mio atteggiamento nella gestione di una gara. La mia predizione genera l'evento, un pò distorto...ma giustificato dal fine: il raggiungimento della meta.
Così come spesso immagino di vedere me stesso al posto di un atleta famoso che entra in uno stadio e sta per vincere la medaglia d'oro alle olimpiadi, ovvero vivo quell'esperienza nella mia mente per avvicinarmi all'idea di uno scambio emozionale.
E' un pò come se idealizzassi il mio capolavoro interiore sublimandolo con l'emozione di un'azione ben più nota, compiuta da qualcun'altro.
Quell'azione agisce sulle mie emozioni, esaltandole. La bellezza di ciò che immagino mi permette di andare oltre le mie reali possibilità.
POTENZIALE E PRESTAZIONE
Come già accennato, cerco di allenarmi sempre, in qualsiasi condizione fisica e psicologica: questo mi permette di gestire anche condizioni di stress elevato e fattori imprevedibili.
Questo è il mio concetto di antifragilità.
Il mio potenziale vive all'interno della mia forza di volontà, e dunque spesso mi viene facile tradurlo in prestazione.
Citando Berruto: Io non ho capacità per affrescare la Sistina quanto di dipingere una tela completamente blu.
Ovvero: sono capaci tutti a dipingere una tela completamente blu come Yves Klein così come sono capaci tutti di allenarsi per quattro ore tutti i giorni da trent'anni. Siete capaci? Non ci vuole poi tanto? Iniziate a farlo. Soprattutto, siate voi i primi a pensare che questa tecnica possa portare ad un risultato.
SIMONE MORO e IL DESIDERIO
"Sono stato un bambino come tanti.
Poi un incidente, l'andatura ed il passo pregiudicati per sempre,ancora oggi ne porto i segni.
Mi regalarono un bicicletta per farmi arrivare dove con i passi sarei stato più lento.
Ma all'inizio anche la bici mi tradiva, non potevo fare ciò che facevano gli altri, con la stessa rapidità, con la medesima naturalezza.
Non riuscivo a raggiungere certe salite, e la crudeltà innocente dei bambini non mi dava tregua.Risate, burla, emarginazione.
Poco alla volta cercavo di avere una vita normale come quella di tanti altri bambini.
Spesso allora mollavo la bicicletta e proseguivo a piedi, con incedere incerto, per il solo gusto di arrivare, in qualunque modo, potendo sfruttare due possibilità che in equa parte potessero compensare una qualità normale.
Una sorta di transizione bici corsa.
A volte però piangevo, sconsolato, isolato, deriso.
In un pomeriggio d'estate ero seduto su un muretto, l'ennesimo pianto per l'ennesima sconfitta: mi si fece avanti un uomo dal viso solcato di fatica e dalle mani contorte dal lavoro e mi raccontò di quando attraversò l'Europa per sfuggire alla prigionia,con le pallottole del nemico che gli fischiavano accanto.
"Un giorno,anche tu arriverai lassu' .Non ti curare di chi ti ride alle spalle.Se vuoi arrivare in cima alla salita ci arriverai.Provaci quando nessuno ti vede.Ce la farai".
Penso sempre alle parole di quell'uomo,penso sempre all'esiguità morale delle mie vittorie in confronto alle sue. Forse vincere le mie sfide e le mie battaglie è anche un modo di ringraziare chi mi inculcò con parole allora misteriose il concetto di allenamento: "Provaci quando non ti vede nessuno" disse quell'uomo.
Trasformai l'emarginazione forzata in isolamento voluto, in consapevolezza di diversità.
Da quella presa di coscienza cercai di sfuggire alla banalità, certo che avrei dovuto impiegare più tempo ma che alla fine il mio traguardo avrebbe avuto un valore unico ed inestimabile.
Cominciai a fare tutto ciò che gli altri non facevano.
Ancora oggi, provando da solo, spesso di notte per abituarmi ai ritmi e ai tempi di gara, rivolgo i miei pensieri al viaggio di quell'uomo.
Con chissà quali mezzi, con chissà quali scarpe, senza cibo, senza acqua, al freddo.
Raggiunse casa, il suo traguardo.Pesava quaranta chili.Più morto che vivo.
Le mie fatiche sono poca cosa rispetto alle sue.Certi traguardi raggiunti con il nome che porto sono anche il ringraziamento e il riconoscimento a chi non è stato mai alla ribalta delle cronache ma ora raccoglie i frutti di ciò che mi ha insegnato.
Ricordo poco altro di quell'uomo, la lontananza e le vicissitudini della vita mi hanno spesso tenuto lontano da lui.
Forse mi ha insegnato solo quello, ma alla fine in cima a quella e a mille altre salite ci sono arrivato.
Provando e riprovando, sempre da solo.
Di quell'uomo porto lo stesso nome". (Vincenzo Catalano, rivista Triathlete aprile 2007)
Quell'uomo era mio nonno, che con pochi insegnamenti innescò in me il desiderio di compiere qualcosa in linea con le mie caratteristiche.
Ad oggi, i consigli di quell'uomo rimangono per me l'esempio migliore di psicologia della prestazione ed egoismo di gruppo: nonnno Vincenzo aveva sistemato il mio motore emozionale. Per sempre.
Mio nonno vide in me ciò che sarei potuto diventare ( "Se prendiamo un uomo per ciò che è lo peggioriamo ma se lo prendiamo per ciò che dovrebbe essere allora lo rendiamo capace di diventare ciò che può essere. Dobbiamo essere idealisti perché solo così si finisce per e7*ssere realisti"- Goethe-)
- IL DIRETTORE D'ORCHESTA E I PIONIERI
-Nel 2003, io e Giacomo Maritati eravamo gli unici due atleti italiani che si cimentavano in gare di ultra distanza nel triathlon (ovvero distanze più lunghe dell'ironman).
Siamo stati una sorta di pionieri di questa disciplina, suscitando interesse e curiosità in molti atleti che, di volta in volta, ci contattavano per capire qualcosa di più di questa disciplina massacrante.
Nel corso degli anni abbiamo avuto il piacere di far esordire molti di loro nella varie gare del circuito di ultra ironman.
Non li abbiamo allenati, nel vero senso della parola e non eravamo neppure i più forti atleti in circolazione nel panorama mondiale delle ultra distanze.
Abbiamo solamente raccontato loro le nostre emozioni e cosa provavamo durante quelle esperienze che duravano dai due giorni alle due settimane.
Siamo stati però in grado di accendere quella "luce" nei loro occhi,che li avrebbe portati poi verso traguardi anche a loro inimmaginabili.
("Se i loro occhi brillano saprete che ci siete riusciti"- Benjamin Zander)
QUI ED ORA
Non esistono spiegazioni logiche che aiutino a comprendere il significato di certi gesti atletici ripetuti in continuazione e spesso protratti all'infinito.
Gesti che hanno come unico fine la ricerca di nuovi traguardi , di nuove emozioni, di una vita che rifugga dalla monotonia e dall’ansia quotidiana attraverso l'espressione di un corpo che si muove.
È riduttivo relegare un gesto atletico alla sua rappresentazione meccanica.
Il significato è più ampio e più nobile: con il suo movimento l'atleta sfida parametri terreni, percorre strade, acque, montagne.
Percuote e adopera “protesi estensive”(racchette, mazze, armi etc) per scandire dei punteggi che rappresentano la sua volontà di raggiungere un traguardo.
Approfitta e assapora sensazioni cinestesiche di polvere, calore, pressione, freddo, dolore.
Chiudendo cicli percettivi che gli permettono sensazioni sconosciute ai più.
Solo perché ricco di queste sensazioni l'atleta può reagire al dolore di un corpo che gli implora di fermarsi.
L'atleta si fonde con gli elementi naturali e percettivi nel momento in cui vi entra a contatto, sfidandoli.
Diventa parte di un mondo naturale che non lo può tradire così come spesso fanno gli uomini.
Elementi misurabili e oggettivi possono solo restituire ciò che si è speso per sfidarli: impegno, sacrificio, dedizione.
Non si può aver paura della strada o di una palla, fidate compagne di vita.
I traguardi da raggiungere distano da noi solo per un intervallo temporale: pazienza, perseveranza e consapevolezza (qui ed ora) attenueranno queste attese.
Esiste un limite fisiologico oltre il quale l'atleta comincia a riposare.
Oltre questo limite l'atleta lascia spazio alla parte più profonda e vera di sé, ed è questo il momento in cui all'atleta subentra l'uomo.
L'uomo raschia in una sorta di barile della forza , ormai terminato.
E in fondo a queste riserve trova se stesso, la sua intelligenza, i suoi valori più profondi, le sue motivazioni.
E non si ferma più.
In fondo, per uno sportivo, la vita è quella pausa tra una gara e l'altra.
EMPATIA
Sono una persona pressoché priva di preconcetti.
Sono curioso di capire le particolarità di chi mi sta davanti (se meritevole di mia attenzione): come questa persona ha scelto di viaggiare in questo mondo e cosa la porta a fare ciò che fa.
Forse perché io per primo faccio cose che non si possono spiegare se non con un moto di empatia.
Vivo in un mondo per il quale non ci sono parole se non quelle retoriche che tanto mi piacciono come “vittoria”, “sudore”, “tenacia”, “fatica”, “dolore”, “sconfitta”.
Perché è impossibile spiegare le sensazioni che riesco a vivere durante allenamenti e gare, quel rapporto così intimo tra il mio corpo e la mia mente, i lunghi segreti di quando sto da solo con il mio corpo e il dolore che viviamo sia io che lui....
Non ci sono parole per tutto questo.
E allora se sono a fianco di una persona non ha senso neppure insistere.
Se davvero vuoi capire cosa stia sotto a tutto quanto, l'unica cosa da fare è rimanere a guardare, e sperare di capire con quella parte di mente che non è razionale ma partecipativa, e che invece di giudicare, indulge(assenza di giudizio).
Sono capace di essere partecipe e indulgente.
E permetto al mio interlocutore di fare altrettanto con me, che non è poco (!).
Ma chi mi sta a guardare per troppo tempo dopo un po' si vede riflesso.
Perché sono capace di partecipare e di indulgere talmente tanto e talmente bene che non sono poi più in grado di assestare il colpo del giudizio.
E nello scambio cerebrale tra stili di vita, nel dialogo fra mondi che si incontrano, io prendo molto di più di quanto non dia.
E continuo a cercare, e quando trovo cose interessanti le prendo in prestito. E le trasformo in una ragione per andare avanti. Io uso ciò che scopro nelle persone come carburante per andare oltre quei confini che ho messo in ogni angolo del mio carattere. Ma lo faccio con grazia, con profondità, dolcemente.
Ho bisogno di energia per far funzionare il mio corpo e di emozioni a cui ancorarmi per far funzionare la mia forza di volontà. Trasformo i punti di forza dell'interlocutore come una ragione per andare avanti.
Che di per sé, rimane il mio unico tratto romantico.
IO E SPIRITO
Al termine di una competizione, di un’avventura o di un’esperienza di vita (in cui il mio IO, estensione materiale del mio Spirito, ha avuto un ruolo preponderante e fondamentale) spesso mi ritrovo a osservare delle immagini del mio corpo in azione.
A me piace pensare a questi fotogrammi come a un attimo infinito di gloria, immortalata per sempre su un supporto cartaceo, ma trasposizione di un ricordo che rimarrà indelebile nella memoria.
Un fotogramma non ferma solamente l’immagine che il mondo ha di noi: essa fissa lo stesso ricordo che noi stessi abbiamo di quell’istante.
La fotografia mostra in un’unica immagine la sintesi IO-Spirito.
Un IO, altamente “cartesiano”, un IO macchina, quasi perfetta, sottoposta a continui sforzi per ottenere i massimi risultati sotto ogni punto di vista.
Ma se guardo a tante immagini che ritraggono questo IO in azione , vedo spesso sguardi tristi e insoddisfatti.
Interpreto l’infelicità di alcune espressioni sia come una consapevolezza dell’ attimo di breve felicità presente condizionata dal passato; sia come prevalenza dello spirito del cercatore che intravede l’illuminazione del diventare migliore attraverso una affermazione sportiva.
Un passato con segni indelebili sul quale l’io ha cercato di soprassedere concentrandosi sul perfezionamento di sé stesso, del corpo macchina e automa, e questo spirito, che in un continuo ed estenuante viaggio, si ripiega sul corpo, cercando equilibrio e perfezione impossibili da raggiungere.
Il mio spirito spesso chiede scusa al corpo per averlo estenuato ancora una volta, per averlo messo duramente alla prova. E questo corpo perdona, e la volta successiva darà ancora di più (dialogo interiore).
Come se ci fosse tra i due una dinamica sadica e masochista ad alternanza. Lo spirito ama e odia l’IO, un IO di esso schiavo ma padrone delle azioni.
L’io si illuderà che la fatica propostagli dallo spirito sia l’ultima. L’Io si illuderà che non ci sarà una seconda volta e lo spirito gli lascerà quest’illusione. Per poco.
PERCHE' CORRI?
Sono estremamente emotivo e trasformo tutto quello che attraversa la mia strada della vita in sfida, perché altrimenti per me sarebbe molto più complicato affrontare le cose.
O forse trasformo tutto in sfida perché faccio questo da quando avevo 15 anni e il superamento di un ostacolo è diventato fisiologicamente la mia forma mentis.
Sono sempre stato riluttante a rispondere alla domanda sul perché corro.
Perché la verità è che non so se esista davvero “un” perché. E non ho ancora trovato una risposta logica. In realtà credo che non ci siano buone ragioni per correre un deca ironman o distanze ancora più lunghe. Amo la distanza. Mi piace allenarmi e vorrei correre oltre i sessant’anni.
Non ho bisogno di perdere peso correndo e non ho bisogno di guadagnare soldi dall’attività sportiva.
Ho solo bisogno di correre. Viviamo in un mondo in cui tutto richiede uno scopo e una spiegazione, altrimenti è inutile.
L'esercizio deve avere un beneficio diretto per essere degno del nostro tempo.
L’uomo medio , in questa società, è sempre più malaticcio e sedentario.
Le persone pensano che invece che correre sia più opportuno pensare a quale vantaggio fisico o finanziario si possa trarre da questa attività. Ma credo che l'ultra distanza sia più un'arte che un lavoro.
Io quest’arte credo di possederla, anche se ho bisogno sempre di conferme per esserne sicuro. E così mi cimento, continuamente, in gare estenuanti.
Nessuno però si è mai chiesto: Perché andiamo a un balletto Perché ascoltiamo un'orchestra Perché visitiamo le gallerie d'arte Perché apprezziamo la musica Oppure: Perché andiamo al cinema? Perché guardiamo un’ alba? Perché accarezziamo un cucciolo? Non c'è logica o ragione dietro queste cose, ma sono azioni che nutrono le nostre anime.
Ci rendono umani. E la corsa ultra mi rende umano. Correre mi fa sentire vivo. Più corro ( e io corro tanto) più mi sento umano. Correre è l'unica cosa che non ho bisogno di spiegare. Come mi ha detto una volta un amico, abbiamo bisogno che esistano persone in grado di correre un decaironman proprio come abbiamo bisogno di persone che possono cantare sopra un'orchestra o che possono dipingere un capolavoro. Ci dimostra la meraviglia e la versatilità dell'umanità e ci ricorda che come specie siamo capaci di prodezze straordinarie. E quindi abbiamo bisogno di un esercito di corridori che possa muoversi rapidamente senza scopo. Un esercito di persone che cerca sentieri che portano a nulla. Che scala le montagne solo per vedere l'altro lato. Ancora più importante, abbiamo bisogno di cose nella nostra vita che non dobbiamo razionalizzare.
Cose che possiamo amare incautamente.
Vivo in un mondo tutto mio dove parole retoriche ridondano nella mia testa a ciclo continuo: vittoria, sudore, tenacia ,fatica,dolore, sconfitta, delusione.
Vivo sensazioni incredibili durante le mie imprese: ho un rapporto così intimo tra il mio corpo e la mia mente, ho grandi segreti quando sto da solo con il mio corpo sofferente per lo sforzo, ci sono cose che io e il mio corpo ci diciamo quando sia la volontà che i muscoli non ce la fanno più, anche quando degenerazioni allucinatorie ci assalgono. Non ci sono parole per spiegare tutto questo.
Uso ciò che scopro nelle persone come carburante per andare oltre quei confini che ho messo ovunque, ma lo faccio dolcemente. Ho bisogno di energia per far funzionare il mio corpo e di emozioni per far funzionare la mia forza di volontà.
Basta tutto ciò a spiegare perché corro?
SU DI ME
Vincenzo Catalano, nato a Milano il 30/06/1969, di professione Trainer & Coach.
La mia storia è quella di un bambino con una famiglia tradizionale, con una infanzia felice a Milano.
Poi nel 1980 il trasferimento a Desenzano del Garda, per seguire papà capo stazione. A 11 anni un incidente che ha segnato la mia vita: in una casetta di legno destinata al ricovero attrezzi stavo sistemando la mia bicicletta. La vicina di casa stava preparando il barbecue. La casetta prese fuoco, in un attimo le fiamme la avvolsero e io mentre scappavo inciampai in un tizzone. I pantaloni della gamba destra presero fuoco, per fortuna mi tirarono fuori subito ma la mia gamba destra era ustionata fino all’anca.
Sei mesi di ospedale, 26 interventi di ricostruzione, trapianto di carne presa dai miei glutei e dalla coscia.
Ho camminato con stampelle e sedia a rotelle per due anni, dagli 11 ai 13 , poi la lenta ripresa.
Questi due anni di immobilità mi appesantirono nel corpo e nello spirito, poi in me scattò qualcosa.
A 16 anni mi iscrissi in una palestra, per perdere peso iniziai a correre, con andatura goffa e scorretta; pedalare e nuotare.
Ancora oggi ho il 40% di mobilità alla caviglia destra, ma vado avanti ugualmente.
A 17 anni la mia prima gara di triathlon, da lì è venuto il resto.
Nel 1995 sono partito per il servizio militare nei paracadutisti della Folgore, dove nascosi il mio handicap.
Nessuno se ne accorse, una fascia elastica, millantando uno strappo, copriva tutto.
Nei test fisici ero sempre il migliore. Tre anni nella Folgore, i gradi di capitano al congedo, la volontà di rimanere lì e una laurea in architettura che mi attendeva. Scelsi la seconda, per far felice mio padre e, dopo due anni di missione, per avvicinarmi a casa.
Nel 2005, dopo il record mondiale di 31 ironman corsi in un anno (la media di un buon atleta annuale arriva massimo a tre!) il CNR di Pisa, Istituto di Fisiologia Clinica, si interessò a me.
Volevano vedere quali doti fisiche, fisiologiche e psicologiche io avessi per arrivare a fare tanto.
Il protocollo di studio durò tre anni (2005-2008), feci test in qualsiasi condizione climatica (Dubai, Everest, apnea). Coinvolsi altri trenta atleti, a paragone.
Dopo tre anni il responso fu banale quanto eccezionale: io ho parametri fisici e fisiologici AL DI SOTTO DELLA MEDIA DI UN ATLETA DI SCARSO LIVELLO.
Il monitoraggio della mia attività cerebrale e del mio sonno fecero emergere capacità fuori dal comune:
motivazione, concentrazione, capacità di modificare funzionamento di cuore e polmoni in base allo sforzo.
https://www.youtube.com/watch?v=JowR-ULbCtc
https://www.youtube.com/watch?v=Bu__PFNoxPs